C’è una piazza a Taranto,
nel rione Tamburi. È modesta, ma ha tre monumenti. Il primo è un’edicola
con una Madonnina, bisogna spolverarla ogni giorno. Il secondo è una
grossa targa di ferro, corrosa e smangiata. Dice:
Nei giorni di vento nord-nordovest Veniamo sepolti da polveri
di minerale E soffocati da esalazioni di gas Provenienti dalla zona
industriale “Ilva” Per tutto questo gli stessi “maledicono” Coloro
che possono fare E non fanno nulla per riparare.
Maledicono è inciso
in caratteri più grandi.
Fra
coloro che eressero l’edicola e affissero la targa c’era Giuseppe
Corisi, operaio dell’Ilva, comunista e cattolico, consigliere di circoscrizione
e animatore del Comitato per l’ambiente. Il 14 febbraio scorso ha saputo
di avere un cancro ai polmoni, l’8 marzo è morto. Prima ha dettato il
testo del terzo monumento, una targa murata sulla facciata di casa
sua, al terzo piano, appena sotto la finestra del salotto. Dice: “Ennesimo
decesso per neoplasia polmonare. Taranto (Tamburi) 8 marzo 2012”. A
quella finestra sono affacciate la sua vedova, Graziella, sua figlia,
moglie anche lei di un operaio Ilva, e la nipotina che Corisi non ha
visto, sichiama Gaia. Sono gentili e pazienti, e accettano ogni volta
di nuovo di portarvi a vedere il terrazzino di casa, e a passare il
dito sullo strato di polvere nera e rossastra. Dove mettereste
l’“ennesimo” Corisi nelle chiassose categorie di questi giorni,
“gli operai contro gli ambientalisti”? Corisi
aveva 64 anni. Ma l’età media degli operai dell’Ilva è di 31. Dodicimila
uomini, una comunità incredibilmente giovane e pressoché di soli
maschi. “Le donne dell’Ilva” sono importanti, ma sono mogli e madri
e fidanzate e sorelle. Alcune lavorano nella seconda
fabbrica tarantina, che è un call-center di duemila persone, Teleperformance,
minacciata da una dislocazione in Albania e in cassa integrazione a
rotazione. Si sono molto sentiti, in questi giorni, mariti dell’Ilva
e mogli del call-center.
Fra le infamie
dell’Ilva ci fu la Palazzina Laf, in cui alla fine degli anni ‘90 decine
di operai venivano confinati in cameroni nudi, a non far niente e a
impazzire di mortificazione: nel 2001 EmilioRiva e altri dirigenti
dell’Ilva privatizzata furono condannati. Gli domandarono come
facesse a sapere quali operai fossero “facinorosi”, Riva rispose
che aveva ereditato le schedature della gestione Iri. Aneddoto da ricordare,
quando ci si chiede perché anche lo Stato debba pagare per le bonifiche.
Un così brusco trapasso di generazione doveva interrompere la memoria
delle lotte e assicurare gente robusta e poco incline ai pensieri
di morte: i giovani però fanno presto a imparare, possono bastare i
cortei e i blocchi stradali di un’estate calda.
Gli operai con cui
parlate hanno voci diverse: non ne troverete uno che non vi dica prima
di tutto che fumi e polveri, «quella merda», lui le respira ogni
giorno.Ora c’è chi deplora che, in nome del posto di lavoro, gli operai
si siano alleati col padrone. La storia si giocherebbe lungo la nuova
trincea: padroni e operai di qua, ecologisti e magistrati di là. Una
fesseria, direi, anzi due. Un plotone di capi che fischiano i magistrati
l’Ilva lo troverà sempre. Gli operai sono attaccati alla fabbrica e
al lavoro che vi svolgono e che sanno fare, non al padrone. Si fa come
se gli operai passassero e i padroni restassero. Ma nella storia ormai
antica dell’Italsider-Ilva è successo anche il contrario: sono passati
tanti padroni, e la fabbrica è lì.
L’altra notte,
quando hanno tolto i blocchi, mi hanno portato a fare il lungo giro
dello stabilimento, due volte e mezza Taranto, raccontando con raccapriccio
e orgoglio un luogo in cui tutto è grandioso, i nastri e l’acciaieria
e le montagne velenose dei parchi minerali e i magazzini di tubi e
rotoli e gli spogliatoi, piani e piani illuminati di spogliatoi.
Gli operai vogliono che la fabbrica non chiuda e che smetta di avvelenare,
e credono che sia possibile. Forse non lo è: a Piombino il miglioramento
decisivo è stato l’abbandono della cokeria, e quella di Taranto è
la più grande del mondo. Si dovranno almeno limitare i danni. Le persone
che abitano ai Tamburi possono avere case più sane e decenti da
un’altra parte. Gli infortuni si sono fortemente ridotti, le ultime
due morti di lavoro risalgono a tre anni fa: il penultimo fu un albanese,
l’ultimo, Zygmuntjan Paurowicz, un polacco. Era al suo ultimo giorno
di lavoro all’altoforno. Gli ultimi italiani, due ragazzi degli appalti,
morirono il 2 giugno 2003. I lavoratori degli appalti fanno le fatiche
peggiori, “nella caloria”. Ditte dai nomi sdoppiati assumono per
due trimestri, poi riassumono col secondo nome, per scansare il tempo
indeterminato.
Si aspetta ora che
i giudici del riesame — il 3 agosto, ma la decisione arriverà giorni
dopo — modifichino l’ordinanza della signora Todisco concedendo
l’uso degli impianti. La pressione per questo compromesso è imponente.
Soprattutto, nessuno può prevedere la risposta operaia nel caso opposto.
Nei giorni scorsi, operai e poliziotti fraternizzavano, e i carabinieri
scherzavano sui loro panini d’ordinanza che non arrivavano. Non sarà
sempre così.
L’idea che gli operai
facciano da massa di manovra per il padrone (agli arresti domiciliari)
ha il suo complemento nel vagheggiamento dell’alleanza opposta, fra
ambientalisti e una magistratura che realizzi la conversione ecologica
per via giudiziaria. La procura di Taranto ha dalla sua un impegno tenace
e non vanitoso contro le ecomafie, la prima condanna dell’Italsider
risale al 1982. E non c’è dubbio che senza l’azione degli ambientalisti
(ce n’è uno, Fabio Matacchiera, che è partito dal le sue immersioni
subacquee per misurare i veleni, e ne è risalito sulla terraferma
fino ai fumi del camino E312, la più alta, dicono, ciminiera del mondo)
e senza la decisione drastica della giudice Todisco, le cose sarebbero
andate avanti nell’inerzia. Qualcuno lamenta l’intempestivo sequestro
dell’area a caldo dell’Ilva proprio quando si era intrapresa la strada
delle bonifiche. “Proprio quando” è la parola d’ordine del senno di
poi, di cui sono pieni i parchi minerali. Se le cose davvero cambieranno,
lo si dovrà al sequestro. E se non cambieranno, non lo si dovrà al sequestro.
Ma la contrapposizione fra lavoro e salute è una truffa, e il più irreparabile
fallimento dell’ecologismo italiano.
Poi c’è Taranto,
con una popolazione che si riduce — 190 mila persone, più o meno — e
una demoralizzazione universale. Ha subito una serie di rovesci
impressionante — una Grecia prima della Grecia, dice il mio amico Fulvio.
In democrazia i rovesci la gente se li cerca votando male, ma qui il
castigo ha infierito. Venne Cito, energumeno del controleghismo
meridionale, e finì nelle condanne per mafia e bancarotte: oggi è
un poveruomo che piange nell’infermeria del carcere. Venne un’esperienza
berlusconiana dalla finanza allegrissima, e finì nel 2007 con la dichiarazione
ufficiale del dissesto del Comune (non si chiamava ancora default),
che ancora limita le risorse della nuova giunta. Nel cuore della città
c’è il palazzo del glorioso liceo Archita, transennato da quasi dieci
anni, con i finestroni dai vetri rotti, e l’ailanto che infesta il
balcone d’onore del se-condo piano. Nella Città vecchia, l’anno scorso
un fico crebbe fino a far crollare la chiesa di San Paolo alle Pentite,
rovinando su un poveretto che dormiva in auto. Sono ancora là, i ruderi
della chiesa e, trionfatore, il fico. (Del ferito spero che abbia trovato
un tettuccio più sicuro). Adesso c’è un fico che cresce spavaldo sulla
mia scuola elementare, la 25 luglio.
Taranto ha una raccolta
archeologica meravigliosa (alla sua origine fu Luigi Viola, avo di
Sandro), e un museo rinnovato ma chiuso per metà. Visitatori
pochi; in compenso i pezzi vanno in prestito a mostre sontuose in tutto
ilmondo. Taranto stessa è la copertura della città antica, e se invece
di smantellare l’Ilva si smantellasse la città in favore della necropoli,
si completerebbe l’opera. Ci penseranno magari i cinesi, che sono
la principale comunità straniera della città, benché nessuno li
sappia contare. La marina militare cinese è approdata, il porto
mercantile è in mani cinesi, come il Pireo. A loro piace che Taranto
sia equidistante da Suez e da Gibilterra, e che le sottofatturazioni
siano lucrose. Il deputato del Pd Vico parla di Gomorra cinese. In
cambio, dal bordo della stazione torpediniera, all’inizio del mar
Piccolo, i pescatori con la canna sono cinesi, e i loro bambini parlano
tarantino.
I tarantini con
cui parlate vi dicono, come se si fossero messi d’accordo, che Taranto
«è morta »: una necropoli, appunto.
Naturalmente
non è vero, e la città è spesso bella, le persone impegnate sono tante,
e nei bar se ordinate un caffè vi portano subito un bicchiere d’acqua
— come in Grecia. Ma perfino la squadra di calcio sta agonizzando, e
ha anche lei la sua data fatidica, il 6 agosto: o saranno versati 350mila
euro, o niente iscrizione alla serie D. Giuse trova pertinente la
scritta murale: “Siamo dei professionisti della sconfitta”. Alfonso
Musci, eminente giovane studioso e militante in proprio, cita un Filippod’Angiò
che regalava cesti di pesci ai sudditi, e quando morì e chiesero a
una vecchietta perché piangesse lacrime così calde, lei rispose:
«Amo perso a Filipp cu’ tuttu lu panaro» – abbiamo perduto Filippo e
tutto il cesto. Così si sentono i taran tini oggi, dice Alfonso:
«Amo perso a Filipp cu’ tuttu lu panaro».
Trovo semplicemente osceno che ad un operaio venga chiesto di decidere tra il rimanere disoccupato e fare un lavoro che può ucciderlo.
RispondiEliminaAd uno dei più grandi gruppi siderurgici del mondo dovrebbe essere imposto di avere impianti in grado di produrre salvaguardando l'ambiente.