PIÙ STRESS E RISCHIO INFLUENZA NEGLI UFFICI OPEN SPACE (15/01)
Compaiono spesso nelle pellicole americane e danno l'impressione di una vita lavorativa efficiente e soddisfacente. Tuttavia i grandi uffici open-space possono danneggiare il nostro stato di salute. Lo rivela uno studio scientifico australiano, svolto alla Queensland University of Technology di Brisbane dal dott. Vinesh Oommen e dai suoi colleghi.
Le grandi stanze uniche, piene di postazioni con computers e telefoni, furono teorizzate nell'800 da Frederick Winslow Taylor, convinto che un unico ambiente lavorativo avrebbe migliorato la produttività, ridotto i tempi morti e incrementato il controllo dei capi sui dipendenti.
Certo Taylor non immaginava che, quasi due secoli dopo la formulazione della sua idea, alcuni studiosi avrebbero dimostrato come gli uffici open space compromettano il benessere psicofisico di chi ci lavora.
I ricercatori australiani, il cui lavoro è stato è stato pubblicato sul quotidiano britannico “Daily Mail”, hanno passato al setaccio gli studi già effettuati in passato sugli effetti degli ambienti lavorativi aperti e collettivi sui lavoratori. Il risultato di questa analisi ha indicato che nel 90% dei casi lavorare in un ufficio open space faceva male: aumentavano lo stress e l'aggressività dei dipendenti, il livello della loro pressione arteriosa, gli esaurimenti nervosi e i rischi di contrarre malattie contagiose, come l'influenza, a causa della libera circolazione dei virus nell'aria.
Il verificarsi di questi spiacevoli effetti in chi lavora negli uffici open space è dovuto, secondo il dott. Oommen e il suo gruppo, alla mancanza di privacy, al sovraffollamento, al rumore, alla confusione: non avere uno spazio proprio, il fatto di non poter telefonare senza essere ascoltati o di non poter usare il pc senza che qualcuno possa sbirciare sullo schermo, fa sentire i lavoratori insicuri, nervosi e aggressivi. Ci si ammala più facilmente e calano anche i livelli di concentrazione sul lavoro e la produttività.
Il problema dunque non è solo solo sanitario, ma anche di politica aziendale, visto che spesso le imprese si trovano, in queste situazioni, a dover sostituire gli impiegati malati e ad affrontare un calo di produzione.
Oomen sottolinea come, negli ambienti lavorativi open space, cresca il rischio di scontri fra colleghi e che, per i dirigenti che amano gli uffici grandi e aperti, sia consigliabile cambiare idea. Infatti, prosegue il dottore, per quanto ciascun lavoratore cerchi di personalizzare la sua postazione con foto e oggetti personali, quasi nessuno riesce ad evitare un aumento dello stress, dell'insicurezza e dell'aggressività dovuti alla mancanza di uno spazio proprio e riservato.
Delle piccole stanze dove ciascun dipendente possa lavorare, magari anche in gruppi di poche persone, può costare di più come investimento immediato a un datore di lavoro, ma ne verrebbe remunerato con migliori prestazioni lavorative dei suoi impiegati e con la loro minore assenza per malattia dall'ufficio.
STORIA DEGLI OPEN SPACE
IN PRINCIPIO era la stanza da ufficio: dentro, una due o al massimo tre scrivanie e altrettanti impiegati. Forse anche alla fine sarà così, forse no.Quel che è certo è che, in mezzo, almeno nelle grandi aziende, imperversa l’epoca degli open spaces e dei cubicles (letteralmente «cubicolo», «cella»), gli angusti moduli in cui trascorrono la loro giornata centinaia di migliaia di lavoratori.Invenzione tutta a stelle e strisce, ma che ha attecchito nel resto del mondo e, seppure in misura minore, anche in Europa. Fino a diventare l’icona globale, immortalata in decine di film sulla working class americana, di un modo di lavorare alienante e parcellizzato cui opporre le più svariate forme di resistenza. Visitare la nostra sezione video per convincersene.
Curioso: tra tutte le utopie del Novecento, quella dell’open space, poi degenerata in inferno cubicolare, è la meno conosciuta. Eppure, a seguirla da vicino, la sua ascesa e caduta è identica a quelle delle sue illustri consorelle. Come queste ultime, innanzitutto, nasce con i migliori propositi di salute e felicità per il genere impiegatizio.
Il sogno del suo ideatore, Robert Propst, designer della Hermann Miller, storica azienda statunitense di arredamenti per ufficio, era e resta affascinante: pensare il lavoro non più distribuito in uffici singoli, separati da muri e porte (il più delle volte chiuse), ma in ambienti ampi, privi di sbarramenti fissi, suddivisi da pannelli che non isolino il lavoratore ma al contrario lo mettano in costante comunicazione con il mainstream aziendale.
Suona bene, vero? Così come carico di promesse di dinamismo e liberazione di energie positive era il nome che Propst diede alla sua invenzione: Action Office!E invece, come in tutte le utopie che si rispettino, l’ideale, una volta calato nella realtà, mostrò ben presto il suo volto poco umano. Le aziende infatti non ci misero troppo tempo a rendersi conto che l’idea si prestava a interessanti ritorni economici.
Lo spazio destinato ai lavoratori, ora divenuto fluido e indeterminato, poteva essere ridotto a piacimento e, salvo casi eccezionali, al principio dell’Action Office si sostituì inesorabilmente quello del “più ce ne stanno meno spendo di affitto”.
Una ricerca datata agosto 2007 evidenza come lo spazio medio dei cubicles negli uffici americani sia sceso dai circa 23 metri quadri del 2000 a poco più di 17 nel 2005. E la tendenza sembrerebbe quella di un’ulteriore riduzione del 20% entro il 2010…
Cosa ci riserva dunque il futuro?
Mostruosi alveari aziendali, in cui i lavoratori sono stipati come polli e si possono verificare spiacevoli inconvenienti come quello descritto nella vignetta, paradossale ma non troppo, apparsa qualche tempo fa sul New Yorker?
E non è un caso, forse, che lo stesso Propst, poco prima di passare a miglior vita, nel 2000, abbia sconfessato la sua creatura ormai sfuggitagli di mano, definendola senza mezzi termini una «monolitica pazzia».
Ma forse non tutto è perduto.Già da tempo i designer più avvertiti – in America come in Europa – si sono messi all’opera per trovare un modello alternativo a quello ormai degenerato degli open space senza se e senza ma. Una sorta di terza via che conservi le opportunità offerte dall’intuizione di Propst, senza perdere in umanità e abitabilità.
Come? Ad esempio tentando di dare vita al deserto lunare dei cubicles, organizzando lo spazio con piante, fiori, scenografie naturali e aree dedicate alla decompressione dello stress, alla socializzazione, al relax. Magari prendendo spunto dal modo in cui sono organizzati negli zoo gli ambienti destinati ad ospitare gli animali e provando ad applicare qualche soluzione a quel particolarissimo animale che è l’impiegato.
Qualcosa si muove, dunque. Anche se, probabilmente, l’immagine che vedete qui sotto non è l’alba di una nuova era, ma soltanto un divertente fotomontaggio. Certo che sarebbe una bella pagina di resistenza umana: dall’acquario dei dipendenti di fantozziana memoria, all’acquario per i dipendenti.
http://www.youtube.com/watch?v=60sDpJkqVr8&feature=PlayList&p=D25C08B1B1C2317D
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