sabato 18 agosto 2018

venerdì 30 dicembre 2016

Cassazione: licenziamento legittimo se l'azienda vuole aumentare i profitti

MILANO - Il datore di lavoro può licenziare un dipendente non solo in caso di difficoltà economiche e in situazioni di ristrutturazioni aziendali dettate da una congiuntura negativa, ma anche per "una migliore efficienza gestionale" e per determinare "un incremento della redditività". In altre parole: per cercare di aumentare i profitti.

La Corte di Cassazione, con una sentenza depositata il 7 dicembre scorso (segnalata dal quotidiano ItaliaOggi), scrive una nuova pagina nel campo del diritto del lavoro. Destinata a fare giurisprudenza e quindi a essere presa come riferimento anche dai tribunali di primo e secondo grado, chiamati a decidere sulle controversie tra imprenditori e dipendenti.

La Cassazione è intervenuta sul caso di un dipendente messo alla porta dall'azienda dove lavorava, dopo due sentenze tra di loro in contrasto. Il giudice di primo grado aveva stabilito che il licenziamento era legittimo in quanto "effettivamente motivato dall'esigenza tecnica di rendere più snella la catena di comando e quindi la gestione aziendale". Giudizio ribaltato in appello , dove il giudice ha ritenuto illegittimo il provvedimento in quanto non era stato motivato dalla necessità economica e dalla presenza di eventi sfavorevoli, ma essendo stato "motivato soltanto dalla riduzione dei costi e quindi dal mero incremento del profitto".

Appellandosi anche all'articolo 41 della Costituzione che prevede la libera iniziativa economica dei privati, citando le direttive comunitarie sul tema, ma anche riferendosi a decisioni del passato, la Cassazione ha ritenuto che non sia necessario essere in presenza necessariamente di una crisi aziendale, una calo di fatturato o bilanci in rosso per procedere a un licenziamento. Il provvedimento può essere così giustificato anche per migliorare l'efficienza di impresa o per la soppressione di una posizione o anche per adeguarsi alle nuove tecnologie. In poche parole, se l'attività dei privata è libera, deve esserlo anche la possibilità di organizzarla al meglio.  Rimane, ovviamente, potestà del giudice verificare l'effettiva ragione presentata dall'azienda per giustificare il licenziamento per riorganizzazione e il nesso di casualità tra i due eventi (così come lo è in caso di licenziamento per motivi economici).

Il passaggio destinato a fare giurisprudenza - nonché a far discutere - è il seguente: "Ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo - si legge nel dispositivo - l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell'impresa, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa; ove però il licenziamento sia stato motivato richiamando l'esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare ingiustificato per una valutazione in concreto

sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addottata dall'imprenditore". 
Da la repubblica 30/12/16    

martedì 20 settembre 2016

“Parlare di produttività significa non aver capito il mondo”


Parlare di produttività, quando si parla di lavoro, non ha più senso. Non nel mondo contemporaneo, in cui il 70% del lavoro è di tipo intellettuale, e non fisico. Lo spiega Domenico De Masi, sociologo del lavoro e professore alla Sapienza di Roma: ora si ragiona in altri termini
articolo di Dario Ronzoni del 24/08/2012

 Lavoro e produttività, Italia e Germania, ore lavorate e classifiche. Un calderone che è anche un dibattito, ricco di numeri, di idee per uscire dalla crisi e di convinzioni radicate. Il problema è che – si scopre– alcune di queste sono sbagliate, come ad esempio quelle che riguardano la produttività. Lo ricorda Domenico De Masi, sociologo del lavoro e fondatore di S3 Studium. «La produttività è un criterio vecchio», spiega, «al giorno d’oggi non aiuta a definire i ritmi e i risultati del lavoro». Ora che tutto è cambiato, anche le categorie che servono a definire la realtà devono adeguarsi. «Occorrono strumenti nuovi», spiega, «e la società deve imparare ad accoglierli, anche se ci sono molti limiti».
Partirei proprio da qui, dai limiti. Quali sono?
Ce ne sono tanti. Il primo limite è di tipo lessicale. La parola “lavoro” non va più bene.
Perché?
Perché è troppo ampia, e raggruppa in sé concetti molto distanti, che non possono essere considerati, e quindi trattati, nello stesso modo. Il “lavoro”, all’inizio – e parlo dell’Encyclopédie di Voltaire e Diderot – era solo lo sforzo delle viti per entrare nel legno.
E poi?
Poi, con la società industriale, che ha ammassato un numero di persone che prima lavoravano come artigiani in un muro di cinta, è nata la fabbrica, con tanto di organizzazione taylorista e poi fordista nella catena di montaggio. Qui è l’origine dei concetti di produzione e di produttività. E questo era diventato il “lavoro”. Ma si trattava di attività che, per la loro semplicità e ripetitività, deprivavano le persone della loro intelligenza. Erano un’immane gabbia, come diceva Max Weber.
Poi le cose sono cambiate.
Sì. I macchinari sono diventati più sofisticati e hanno incorporato sempre più funzioni. È aumentato il bisogno di specializzazione per poter creare e utilizzare le macchine stesse. Questo ha favorito una riorganizzazione del lavoro: agli operai sono state affidate mansioni più complesse, cercando di venire incontro al bisogno di “intelligenza” dell’essere umano. Anche se poi tutto è stato rivoluzionato, all’inizio degli anni ’70, con l’arrivo del computer. Questo ha comportato un riassetto generale del mondo del lavoro nelle fabbriche: se all’inizio, a metà ottocento, il 6% era dedito a lavoro intellettuale – chiamiamolo così – il 94% svolgeva lavoro manuale. Ora il 70% fa lavori non fisici, e a farlo è solo il 30%. Diciamo che le cose sono cambiate.
Però la parola è rimasta la stessa.
Esatto. A mio avviso, invece, vanno distinte almeno altre due tipologie: si dice lavoro, ma si intende il lavoro fisico, cioè l’operaio – ma anche l’idraulico – e questo è il 30% del mondo del lavoro attuale. Si dice lavoro, ma si intende il lavoro intellettuale e creativo, e penso a giornalisti, scrittori, architetti, studiosi, scienziati, ingegneri. E infine si dice lavoro, ma si intende un altro tipo di attività intellettuali ma ripetitive, come la commessa, l’impiegato di banca o di altri istituti, il segretario. Questi ultimi hanno in comune con la seconda categoria il fatto di essere comunque attività non fisiche, e con la prima di essere ripetitive. Ecco, queste sono le macrocategorie. E servirebbe una parola diversa per ognuna.
Lei ne ha in mente qualcuna?
Al momento, per il lavoro intellettuale, parlerei di “ozio creativo”. Che poi è quello che sta facendo lei, con questa intervista. Un’operazione che richiede sì lavoro, perché sta svolgendo un’attività, ma anche studio, perché sta comunque riflettendo e imparando cose nuove. E poi anche divertimento. Non voglio chiamarlo lavoro, perché non ha nulla a che vedere con il lavoro del minatore, o del cinese che costruisce iPod. È un problema antico: come diceva Conrad: “come faccio a dire a mia moglie che quando guardo alla finestra, io sto lavorando?”. Per uno scrittore, ad esempio, la ricerca dell’ispirazione è parte integrante, anzi direi fondamentale, della sua attività, o del suo lavoro.
Chiaro. Ma adesso veniamo alla produttività.
La produttività, appunto, è la formula di Taylor, per cui la quantità di prodotti viene divisa per il tempo umano impiegato per farli, e definisce l’efficenza. Una formula che è nata nelle fabbriche, e che ora vale per il 30% dei lavoratori, cioè quelli che si dedicano al lavoro fisico. Ma vale solo lì. Non ha senso, invece, applicarla negli uffici.
E perché no?
Perché gli uffici sono una specie di pantano, soprattutto per la creatività, ci sono riti distruttivi e ripetitivi che uccidono le idee. Quelle vengono altrove, in altri momenti. Al cinema, passeggiando, mangiando un gelato, stando con il proprio partner. L’ufficio non è fonte di creatività.
Ma nemmeno quelli della Silicon Valley, con giochi, piscine e aree di relax?
Ma no, quelle sono paraculate! Un modo subdolo che l’azienda utilizza per portare dentro tutto quello che c’è fuori, e quindi non fare uscire i suoi dipendenti. Preferiscono tenere creativi mediocri dentro che averli più brillanti, ma fuori dal loro controllo. Stare in ufficio, ormai, è un rito con una sua intrinseca comicità. Lei, che è in redazione e mi intervista, avrà senz’altro una sua divisa di lavoro, in un certo senso. Io, che in questo momento sto lavorando con lei, sono in mutande e davanti a me ho il mare. È comico, no?
Eh, non me lo dica.
È comico fare cose nuove con metodi vecchi, che poi è il senso profondo di questa crisi. Pensi che nei paesi latini – e intendo Italia, ma anche Spagna e Grecia, e America Latina – c’è l’abitudine a stare due o tre ore in più in ufficio. Si dovrebbe uscire alle sei, e invece si rimane fino alle sette, o alle otto. Una cosa buona? Per niente. Non si resta in ufficio per amore del lavoro, ma semmai per odio del mondo esterno, della famiglia, della società. Una cosa che rovina tutto: in Germania, se si deve uscire alle cinque, si esce alle cinque. E in questo modo si porta il proprio know-how fuori, nel mondo della famiglia, del circolo, degli amici. Si diffonde di più, si lega meglio. Si sta meglio. Ma non solo.
Continui.
Sono almeno due milioni gli italiani che si attardano in ufficio. Un monte ore altissimo, che potrebbe creare 500 mila posti di lavoro. Non è solo tempo buttato, dal momento che non si tratta di zelanti stakanovisti, ma messi insieme, si traduce anche in posti di lavoro bruciati. Spesso quelli dei propri figli.
Ma allora come si può applicare la produttività al lavoro intellettuale?
In teoria si dovrebbe poter guardare al numero di idee avute in un preciso arco di tempo. Ma è una cosa impossibile e ridicola: le idee non sono controllabili nel tempo. Ogni tentativo, ogni metodo di calcolo per il lavoro intellettuale, dall’architetto al giornalista, se basato su questi sistemi, è destinato all’insuccesso. Non funziona, non serve a nulla.
E allora come si fa?
Semplice: spostando la questione dalla quantità alla qualità. Una cosa che cambia tutto. E allora si vedrà che la qualità è direttamente proporzionale a motivazione e intelligenza. O meglio, alla somma tra intelligenza (che è quella che ognuno si trova, e non si può fare molto per cambiarla), professionalità (che è invece la formazione, il know-how di ogni individuo) e la motivazione. Allora, visto che sull’intelligenza di ciascuno non si può intervenire, restano le altre due aree: la formazione, che purtroppo in Italia viene fatta molto nel privato e pochissimo nel pubblico, in modo anche inefficace e inutile, e soprattutto la motivazione.
Allora la domanda si sposta: come si fa a motivare?
Anche qui, ci sono stati 50 anni di studi. E il risultato, per essere sintetici, è questo. Prima si pensava che esistessero due tipi di lavoratori: quelli “motivati”, e quindi collaborativi, e quelli “demotivati”, e quindi conflittuali.
E adesso?
Adesso se ne distinguono – sempre in sintesi – tre: a motivati e demotivati si aggiungono i “neutri”, che non sono conflittuali ma che non fanno nulla di più della sufficienza. Non solo: si è capito che i metodi per trasformare un lavoratore demotivato in un lavoratore motivato sono diversi da quelli che servono per trasformare un lavoratore demotivato in un lavoratore neutro.
Cioè?
Per diventare neutro, per esempio, può servire un aumento di stipendio. O fornire servizi più efficienti, come la mensa o il parcheggio. Tutte cose comode che vengono apprezzate. Ma che non bastano a far diventare motivati i lavoratori. Per capirsi, non è che se continui a dargli più soldi, lui diventa più motivato. E non funziona nemmeno se, invece di una mensa, se ne forniscono tre. È chiaro, no?
Certo. E allora – ancora – come si fa ad avere lavoratori motivati?
Così: serve stimolare la loro creatività. E affidare incarichi di responsabilità. E, soprattutto, il coinvolgimento e la partecipazione nelle decisioni generali. I lavoratori devono anche avere la certezza della carriera, che significa, per loro, sapere che se si lavora bene, si sarà premiati e, al contrario, non si sarà premiati. Nessuno spazio a raccomandazioni e favoritismi. E poco, pochissimo controllo.
Perché?
Perché il legame tra controllo e demotivazione è fortissimo. Più un lavoratore è sottoposto a controlli continui, richiami del capo, insistenze, più è demotivato. Ancora di più, poi, se il controllo è burocratizzato.
Io l’avevo detto a Brunetta che inserire i tornelli negli uffici della pubblica amministrazione non sarebbe servito a nulla, e che anzi avrebbe avuto effetti deleteri. Ma lui non mi ha ascoltato. E si è visto.
Ma non è solo una questione di lavori e di attività. Conta anche la convinzione di star facendo qualcosa di importante.
Certo: questo poteva valere per gli impiegati dei grandi uffici, anche anonimi, della Russia sovietica: loro credevano nel sistema ed erano motivati nelle loro operazioni, anche se molto limitate. Ma anche per le suore che vanno nei lebbrosari. Le ideologie, in questo senso, sono fondamentali. Vede, è sbagliato celebrare come un successo la fine delle ideologie: piuttosto, è stato uno dei più grandi harakiri dell’umanità.
Ideologie a parte, come si spiega questo ritardo nel concetto di produttività?
Sono idee che impiegano tempo a penetrare nella società. Ci sono preconcetti, convinzioni sbagliate dure a morire, si ragiona per categorie stagne. Pensi a tutti quegli articoli sui lavoratori tedeschi a confronto con quelli italiani, che non hanno nessun senso. Come si può mettere insieme una badante e un pilota? O un architetto e un vetraio? Che senso ha? Che cosa mi fa capire di più della realtà? Nulla. Eppure è proprio con queste cose, cioè insistendo su percorsi di formazione, di motivazione e non di produttività, intesa in senso antiquato, che si può uscire davvero dalla crisi. Questa è la via, non ce ne sono altre, e mi sembra lampante.
Sembrerebbe di sì. La ringrazio, intanto, per la sua disponibilità.
La ringrazio anche io, e buon lavoro. Anzi, buon ozio creativo.
lavoro
italia 

venerdì 3 aprile 2015

Strasburgo frena sull'uso della tecnologia per monitorare i dipendenti

TRASBURGO - Il Jobs Act apre le porte all'uso delle nuove tecnologie per il controllo a distanza dei lavoratori, ma dal Consiglio d'Europa arriva l'altolà con un esplicito divieto ai datori di lavoro di 'spiare' i dipendenti.

E questo non è l'unico limite che le aziende devono rispettare per non interferire nella vita privata di chi lavora per loro. A fissare i paletti entro cui è lecito agire è una raccomandazione del comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, che mira a proteggere la privacy dei lavoratori di fronte ai progressi tecnologici che permettono ai datori di lavoro di raccogliere e conservare ogni tipo di informazione.

Il testo, pur non avendo valore vincolante, può essere usato davanti ai tribunali nazionali, e poi eventualmente alla Corte di Strasburgo, da chi ritenga violata la sua privacy. Quindi, oltre ad essere una raccomandazione a governi e parlamenti a legiferare in tal senso, è anche una sorta di vademecum che i lavoratori possono utilizzare per far rispettare i loro diritti.

La raccomandazione impone limiti ferrei su qualsiasi tipo di controllo operato nei confronti dei dipendenti, ma anche sulla raccolta e l'utilizzo di tutti i loro dati personali. Viene cosi stabilito che ai datori di lavoro è vietato usare qualsiasi tecnologia al solo scopo di controllare le attività e i comportamenti dei dipendenti, ma soprattutto che nel caso si renda necessario utilizzare telecamere, o altri sistemi di sorveglianza, questi non dovranno mai essere posizionati in zone dove normalmente i dipendenti non lavorano, come spogliatoi, aree ricreative, o mense.

Ad essere off limits sono anche tutte le comunicazioni 'private' dei dipendenti. Mentre l'accesso a quelle professionali, per esempio una mail a un collega, è consentito solo se il lavoratore è stato informato che questo può accadere, e unicamente se l'accesso è necessario per motivi di sicurezza, o, per esempio, per garantire che un lavoro venga terminato. Il lavoratore ha poi il diritto di sapere quali dati il 'padrone' sta raccogliendo su di lui e perché, e ha anche il diritto di visionarli, di chiederne la correzione, e addirittura la cancellazione. Nella raccomandazione vengono elencate anche tutte le informazioni che un datore di lavoro non può chiedere al dipendente o a chi vuole assumere, e i limiti che deve rispettare nel comunicare, anche all'interno della stessa azienda, i dati raccolti.

da: La Repubblica 03/04/15 

domenica 10 agosto 2014

L'ALGORITMO DEL PROFITTO. VI RICORDA QUALCOSA?


L’algoritmo del profitto. Comandare il lavoro al tempo del technical intellect 

di MICHELE CENTO
Grazie allo sviluppo tecnologico di sicuro non diventeremo tutti uguali, ma almeno saremo gentlemen di fronte al lavoro. Suonava grosso modo così una promessa annunciata con una certa autorevolezza ormai più di un secolo fa. Alle promesse di chi vorrebbe affidare all’evoluzione il nostro destino abbiamo imparato a non dare ascolto, tanto più quando quell’evoluzione oggi si presenta con il volto neutro dell’algoritmo. È quest’ultimo, infatti, la struttura portante di quelle che, all’alba della società post-industriale, Daniel Bell definiva intellectual technologies, il cui perfezionamento ha condotto oggi all’elaborazione di Computer Business Systems(CBS), software preposti alla gestione e all’organizzazione di imprese sempre più complesse, integrate e globali. Si tratta di strumentazioni adottate regolarmente da grandi aziende multinazionali, spesso introdotte da società esterne di consulenza come Accenture e Gartner, per procedere tanto a ristrutturazioni aziendali, quanto alla normale amministrazione della forza-lavoro in chiave iper-efficientista. Eppure, per quanto diffuso sia il loro utilizzo, finora non esistevano studi sull’argomento. Una lacuna che Simon Head ha provato a colmare andando direttamente alla fonte, studiando cioè i manuali rilasciati dalle aziende produttrici dei CBS (tra queste le più note sono IBM, Oracle, SAP): un materiale impervio e spesso inaffrontabile, scritto da specialisti per specialisti, in cui però, annota Head, si trovano informazioni che di norma vengono occultate al pubblico di habitués delle celebrazioni del progresso tecnologico.
Attraverso le analisi di Mindless. Why Smarter Machines Are Making Dumber Humans (New York, Basic Books, 2014), l’ultimo libro di Head, proveremo pertanto a calarci nei segreti laboratori dove la scienza del capitale comanda un lavoro immiserito, non solo e non tanto perché alleggerito sul fronte salariale, ma in quanto privato di quel sapere sociale e produttivo che sembrava aver acquisito nell’«età delle macchine». Il che non comporta la scomparsa delle macchine utensili del fordismo, come se di colpo fossimo tutti diventati lavorativi cognitivi, quanto piuttosto una subordinazione della meccanica alla cibernetica e all’elettronica che inevitabilmente riconfigura il ruolo delle macchine stesse nell’organizzazione produttiva e, di converso, della forza lavoro. A fronte della comparsa di smarter machines, come recita il sottotitolo del volume di Head – ed è questa la sua tesi di fondo –, gli esseri umani stanno diventando più dumb, che in inglese ha un duplice significato: uno più colloquiale, in cui dumb equivale a stupido, e uno più formale in cui significa muto, senza capacità di articolare parole. Se l’intenzione di Head è più che altro quella di mostrare come l’intelligenza artificiale delle macchine abbia impoverito l’intelletto umano, è difficile però negare che la sottrazione di sapere, la sempre più accentuata privatizzazione del general intellect, ci renda inevitabilmente incapaci di stabilire un piano collettivo di comunicazione, ci privi cioè delle parole per articolare una piattaforma politica comune in grado di rovesciare lo stato di cose presenti.
Per chiarire questo punto, che inevitabilmente tocca il problema centrale del «governo tecnico delle scienze», occorre iniziare dalle modalità concrete di funzionamento dei CBS. Anzitutto, tali software si basano su reti telematiche per mettere in connessione spazi e tempi differenti del processo produttivo, ottenendo così il duplice effetto di monitorare costantemente le attività dei lavoratori e mappare l’intera catena globale dello sfruttamento. I dati così ricavati vengono stipati in data warehouses, magazzini digitali il cui contenuto viene poi filtrato, setacciando le informazioni giudicate rilevanti per ottimizzare il processo di produzione, e riversato in data smarts. In questo deposito digitale ripulito, il management può trovare in tempo reale tutte le informazioni necessarie a valutare l’efficienza tanto dei singoli lavoratori quanto dell’intero ciclo produttivo. Alla fase di raccolta e analisi dei dati segue poi quella del problem-solving, che si traduce in una molteplicità di pratiche volte a massimizzare i profitti e a rendere i lavoratori muti esecutori dei piani formulati dai CBS. Nelle loro versioni più sofisticate, questi ultimi sono dotati di apparati che mimano l’intelligenza umana e sono perciò in grado di elaborare autonomamente delle risposte alle criticità riscontrate in fase di analisi e di valutazione. In particolare, questo surplus di intelligenza artificiale consente ai CBS di estendere la loro disciplina industriale in settori diversi da quelli tradizionalmente legati all’attività manifatturiera e di introdursi nel mondo dei servizi, come nelle università e negli ospedali. Non sarà sfuggito che questo complesso di funzioni sia di fatto tenuto insieme da una minuziosa attività di controllo del lavoro che compete ai piani più alti del management aziendale. È solo a questi ultimi che spetta la visione d’insieme del processo produttivo, mentre gli strati intermedi devono accontentarsi di una visione parziale e perciò inadatta a formulare proposte sul piano di una politica aziendale che deve fare i conti con una realtà del lavoro che si manifesta sotto forma di «complessità organizzata».
Tuttavia, perfino questa angolatura parziale risulta negata agli strati più bassi della gerarchia aziendale, quei low e unskilled workers che a Walmart si muovono freneticamente tra piantane e scaffali, sorvegliati a partire dal 2010 da «Task Manager», una tipologia di CBS che, nel momento in cui il singolo lavoratore striscia il badge identificativo, impartisce ordini su ciò che deve fare e in quanto tempo deve portarlo a termine, mentre a fine turno emette l’agognato responso sul raggiungimento o meno degli obiettivi giornalieri. L’insuccesso può decretare diverse sanzioni, che vanno dalla paternalistica «lavata di capo» al licenziamento, passando per una messa in scena in cui il lavoratore deve mostrarsi pentito e convincere i propri superiori della propria lealtà e abnegazione alla causa del profitto altrui. Sempre per evitare fastidiosi «furti di tempo», peccato mortale contro lo spirito del capitale, anche Amazon (già sperimentatore del famigerato «turco meccanico») si è dotato di un software gestionale capace di monitorare ogni spostamento del lavoratore, a cui viene applicato un navigatore satellitare in maniera tale che i superiori abbiano accesso in tempo reale alla sua posizione e possano stabilire se è in linea con gli obiettivi di giornata. Qualora non lo fosse, il lavoratore riceve un sms di avvertimento, corredato dalle eventuali sanzioni che potrebbero scattare se non provvede immediatamente a mettersi al passo con il suo piano giornaliero.
Come si accennava in precedenza, questo distillato di taylorismo sotto forma di A Brave New World non rimane confinato nei magazzini, né tantomeno nei supermercati, ma si estende anche nei settori più avanzati del terziario, dove non si tratta di produrre e/o distribuire merci ma di organizzare relazioni umane. I CBS sono penetrati perfino nella secolare Oxford University, ci racconta con una punta di nostalgia Head che nell’ateneo britannico si è laureato. Nell’accademia britannica impera ormai il Research Assessment Exercise che, attraverso una serie di Key Performance Indicators, monitora la produttività dei singoli ricercatori e lega le loro carriere e i destini del loro dipartimento di afferenza a precisi obiettivi di produzione, trasferendo le informazioni necessarie alla valutazione a un organismo centrale che è l’Higher Education Funding Council for England. Quanto avvenuto a Oxford è, secondo Head, il risultato di un processo di misindustrialization, ovvero il trasferimento di logiche produttive industrialiste e privatistiche nell’area dei cosiddetti commons, beni sociali indivisibili sempre più oggetto di valorizzazione.
Nel complesso, l’esito di questi processi diffusi e ramificati si traduce secondo Head in unCorporate Panopticon, un sistema di controllo automatizzato che raccoglie dati al livello più basso dell’organizzazione aziendale, generando poi un flusso informativo che aggiorna just in time una ristretta cerchia di manager che sulla base del monopolio dell’informazione possono esercitare il loro dominio incontrastato sul lavoro. Come avviene ad Amazon, il management può sì servirsi di capireparto dislocati nei luoghi di lavoro, a riprova del suo gusto pleonastico per le ostentazioni di forza, ma in realtà quella funzione di controllo che l’ingegner Taylor assegnava agli uomini viene ora egregiamente svolta dalle macchine. Di fronte a un sistema così congegnato e animato da una logica interna inattaccabile sul piano formale, le vecchie contestazioni sul ritmo e il carico di lavoro suonano eccentriche perché parlano un linguaggio sconosciuto al sistema: possono essere tutt’al più un imprevisto, se non un errore di sintassi da risolvere con la dovuta urgenza. Il paragone con il Panopticon originale di fattura benthamiana rivela d’altronde come queste nuove prigioni/fabbrica si disinteressino perfino della psicologia dei loro «ospiti», nella misura in cui, stando alle parole sprizzanti retorica e marginalismo da tutti i pori di Mark Onetto (manager di Amazon), uomini e donne al lavoro non devono neanche più pensare al proprio interesse personale, perché il fine unico della loro attività è soddisfare il consumatore. La conclusione, del tutto logica, è che per Onetto lo sciopero è un non-sense.
La giustapposizione di controllo umano e controllo digitale nel mondo del lavoro organizzato dai CBS segnala però una contraddizione interna al processo di spersonalizzazione del comando che l’evoluzione del sistema capitalistico ambisce a portare con sé. Mentre pretende di fare affidamento su un’intelligenza artificiale generale, il capitalismo post-industriale si basa in realtà su algoritmi «umani, troppo umani», elaborati da specialisti nelle Information Technologies (IT) che conoscono bene il materialismo volgare dei propri clienti e che vengono in seguito perfezionati dagli stessi management aziendali a seconda delle proprie esigenze. Nonostante la loro matematica neutralità, gli algoritmi si rivelano in realtà delle merci particolari – e a caro prezzo – perché, «piene di sottigliezze metafisiche», ambiscono a obliterare il carattere sociale del rapporto di capitale spacciandolo per una incontestabile formula matematica. In virtù di una superiore razionalità formale, gli algoritmi sostituiscono all’ingombrante fisicità delle macchine l’immaterialità di un comando onnipervasivo e computabile, che può essere messo in discussione solo da un sapere altrettanto quantificato che risulta però inaccessibile a proletari in formato digitale. In altre parole, gli algoritmi puntano a essere inoppugnabili norme logiche del sociale, che si sottraggono a ogni confronto che non sia condotto secondo il loro astruso linguaggio. Essi sono le armi più raffinate del technical intellect del capitale, che trasforma i lavoratori in carne e ossa nella loro rappresentazione elettronica. Se di fronte alla vecchia macchina utensile il lavoro umano finiva per svolgere un’attività di mediazione tra l’oggetto e la macchina stessa, ne costituiva cioè il braccio animato, i CBS esprimono una normatività sociale che ingloba al suo interno tutti i fattori del ciclo produttivo, lavoro compreso. La scienza digitale del capitale non stabilisce più un’antitesi con il lavoro, non si presenta più come una potenza estranea ad esso, perché i CBS puntano a incorporare il lavoro stesso, destinato a diventare uno dei tanti fattori costitutivi dell’algoritmo del profitto che lo governa.
Di fronte alle trasformazioni prodotte dall’adozione sempre più diffusa delle IT non basta nasconderci dietro la rassicurante (?) ipotesi che siamo ormai tutti operai di fronte al capitale, nell’attesa che unanouvelle classe ouvrière di colletti bianchi e blu finalmente si desti. Semplicemente perché il technical intellect contenuto in questi software è uno strumento all’altezza dei tempi: è duttile, sa operare classificazioni, non presta il fianco a concetti vaghi e non è così diabolico da perseverare nei vecchi errori. Né basta a confortarci un ideale di cooperazione difficile a tradursi in pratica, quando essa dovrebbe sgorgare proprio da una riappropriazione di saperi che appaiono talmente rarefatti da risultare inafferrabili. Riconosciamo all’astuzia del capitale la capacità di aver aggredito la contraddizione che lo innerva, tra il carattere sociale e cooperativo della produzione e l’appropriazione dei suoi prodotti. E di averlo fatto operando su quella che Marx chiamava la «capacità scientifica oggettivata», che volevamo trasformare in organo del general intellect per far saltare in aria la predetta contraddizione. Mentre erode il nostro sapere sociale, il rinnovato technical intellect del capitale riscrive le regole della cooperazione a suo uso e consumo. Il suo lessico parla agli odierni lavoratori dumb con modi che non richiedono risposte se non quelle già previste dal sistema stesso.
Ciò non significa che nella realtà i lavoratori siano soltanto dei muti esecutoriLe lotte dei lavoratori di Walmart e il coraggioso esperimento di dare vita a quell’ibrido organizzativo, metà associazione e metà sindacato, che è OUR Walmart dimostra che c’è uno spazio aperto all’azione, per una prassi che intervenga nello spazio concreto della lotta. Dimostra cioè che la potenza normativa dell’algoritmo ha un limite. E, però, dal libro di Head, che sul piano prescrittivo si limita di fatto a raccomandare più sindacati e più consumo responsabile, sembra che la via d’uscita resti confinata in una dimensione empirica e pertanto incapace di aggredire il capitale sul piano della sua astratta razionalità, ovvero nella dimensione in cui si palesano le ragioni stesse della lotta di classe e la possibilità di estenderne la portata complessiva. Non ci sono mai piaciuti i consigli per gli acquisti ai proletari e del sindacato riconosciamo l’importanza ma sappiamo che non è la soluzione. Forse varrebbe la pena di interrogarci sul perché il capitale stia vincendo non soltanto grazie alla sua forza bruta e materiale, ma anche in virtù di una capacità di astrazione che invero aveva fatto notare fin dall’infanzia. L’apparentemente incontrastabile sussunzione della società globale al capitale ci lascia con il dubbio che gli attuali tempi di magra abbiano generato un’iperfascinazione per la lotta, «quella vera», che talvolta serve più a eccitare le coscienze infelici dei militanti – e al tempo stesso a sedarle, rassicurandole sulla retta via della storia – che non a rovesciare i rapporti di forza reali. Una lotta di classe che si ferma all’empiria, che non è capace di produrre una diversa razionalità a partire dalla concretezza in cui è immersa, è destinata alla sconfitta. O, tutt’al più, a diventare una variabile dipendente facilmente calcolabile da un algoritmO

lunedì 21 aprile 2014

Diario del saccheggio, film documentario di denuncia sulla crisi Argenti...

ANCHE QUESTO VIDEO SI ERA CANCELLATO.

Nel video a seguire trovate un documentario sui fatti che sconvolsero l'Argentina dal 1976 al 2001.


Ovvero tra il golpe militare sostenuto anche dalla Cia e le rivolte popolari seguite alla gravissima crisi economica che colpì il paese.
Questo film del regista Pino Solanas, Orso d'Oro a Berlino per la carriera, racconta fatti accaduti oltre 10 anni fa. 




venerdì 11 aprile 2014

Allarme Ue su stress da lavoro

IN EUROPA oltre il 50% dei lavoratori afferma che lo stress è un fenomeno diffuso nell'azienda o nell'ufficio dove presta servizio. Quattro su dieci ritengono che il problema non sia gestito in modo adeguato. Carichi di lavoro eccessivi, ritmi estenuanti, percorsi di carriera difficili e conflitti fra colleghi, sono solo alcuni fattori che possono complicare l'attività professionale. Secondo l'Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (Eu-Osha), lo stress da lavoro correlato è la principale causa di assenteismo. Per questo ha lanciato la campagna Insieme per la prevenzione e la gestione dello stress lavoro correlato, che durerà due anni. Un modo per insegnare ai capi ufficio come creare ambienti sani e produttivi. Un sogno per molti responsabili di settore,che deve partire proprio da loro e dal modo in cui riescono ad organizzare l'attività. Gestire il lavoro. Secondo l'agenzia Eu-Osha, la diffusione dello stress lavoro-correlato in Europa "è allarmante". Eppure imprese e lavoratori potrebbero gestire e prevenire situazioni di questo tipo. L'obiettivo è dimostrare che i rischi psicosociali collegati a situazioni di questo tipo possano essere trattati in modo sistematico proprio come qualsiasi altro problema per la sicurezza e la salute sul lavoro. Il premio. Ansia da prestazione, agitazione, nervosismo sono sensazioni che colpiscono il 40% degli italiani sul posto di lavoro. La campagna coinvolgerà per due anni più di 30 paesi europee e centinaia di organizzazioni di tutta Europa. Il premio europeo per le buone pratiche, che sarà lanciato il 15 aprile, sarà il fulcro dell'iniziativa. L'invito a presentare candidature è rivolto a tutte le organizzazioni europee che stanno attuando con successo misure volte a ridurre e ad eliminare lo stress. "Persi molti giorni lavorativi". "Lo stress è uno dei problemi di salute sul lavoro più comunemente riferiti ed è ritenuto esser causa della maggior parte dei giorni di lavoro persi", si legge in un comunicato della Commissione. Secondo il commissario europeo per l'occupazione, Laszlo Andor, "la gestione dello stress correlato al lavoro è uno dei cardini per garantire la salute, la sicurezza e il benessere dei lavoratori europei. Lo stress aumenta l'assenteismo e riduce la produttività". Mentre la direttrice dell'Ue-Osha Christa Sedlatschek ha spiegato come, malgrado i costi crescenti dello stress nel luogo di lavoro, su questo tema esistono "ancora significativi equivoci e sensibilità". "Oltre il 40 per cento dei datori di lavoro considera i rischi psicosociali più difficili da gestire rispetto ai rischi tradizionali connessi alla sicurezza e alla salute", mentre "lo stress lavoro-correlato è una problematica a livello di organizzazione e deve essere affrontata come tale dai datori", ha aggiunto Sedlatschek. Il sondaggio: "Italiani i più virtuosi". L'approccio in materia di salute e sicurezza sul lavoro sta cambiando, non solo in Italia ma in tutto il mondo. Oggi le aziende hanno un approccio più consapevole. Lo rivela un sondaggio dell'ente di certificazione internazionale DNV GL e di GFK Eurisko su più di 3.860 professionisti in Europa, Nord America, Centro e Sud America e Asia. Le imprese italiane risultano tra le più attente al mondo: la gestione della salute e della sicurezza sul lavoro è un elemento prioritario per il 96% dei manager e 94% dichiara di adottare provvedimenti specifici in materia. Gli italiani spiccano anche per l'importanza attribuita ai controlli medici per i lavoratori. Il 57% li considera come uno dei mezzi di tutela più efficaci, mentre nel resto del mondo questa percentuale arriva appena al 40%. I rischi sul lavoro più temuti in Italia sono gli effetti di rumori, vibrazioni o radiazioni (47%), quelli ergonomici come la ripetitività del lavoro (35%) e la possibilità di venire a contatto sostanze chimiche (35%). Le categorie più a rischio. Lo stress da lavoro correlato colpisce tutti, ma esistono alcune categorie più rischio. Fra queste ci sono gli infermieri, gli addetti ai call center o agli uffici reclami, gli autotrasportatori.Molte le cause dello stress da lavoro come, ad esempio, una ripartizione dei compiti non corretta, la sensazione di frustrazione perché si ritiene non essere adeguatamente utilizzati, la pesantezza dell'orario di lavoro notturno, la frequenza di incidenti. Per molti rumore, temperature troppo alte o basse, comportamenti inadeguati dei colleghi, per molti possono diventare un tormento che impedisce di lavorare con serenità. DA LA REPUBBLICA 10.04.14

domenica 30 marzo 2014

IL PIFFERAIO MAGICO

Siamo consapevoli che, se passano le “riforme” di Renzi, l’Italia avrà un uomo solo al comando, cioè lui? Abbiamo capito bene che, con la trasformazione del Senato in un ente inutile (lunedì in Consiglio dei ministri), le leggi saranno approvate esclusivamente dalla Camera, senza più la garanzia di una seconda lettura che spesso, nella storia repubblicana, ha evitato pericolosi colpi di mano di questo o quel governo? È chiaro a tutti che, con la nuova legge elettorale (il cosiddetto Italicum) frutto dell’inciucio tra l’ex sindaco e l’ex Caimano, il partito che vince anche per un solo voto avrà un premio di maggioranza da dittatura parlamentare? Stando a tutti i sondaggi, quella supermaggioranza sarà appannaggio del PR, il Partito di Renzi che avrà nel frattempo trasformato il Pd nel proprio scendiletto (già qualcosa si è visto nel voto bulgaro della Direzione di ieri). Il turbopremier, a quel punto, potrà far votare dalla Camera qualsiasi cosa desideri: dallo stravolgimento della Costituzione alla “creazione di un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali”. Parole contenute nel documento di Libertà e Giustizia sottoscritto da un gruppo di giuristi e intellettuali tra i più autorevoli e indipendenti (da Zagrebelsky a Urbinati, da Rodotà a Carlassare, Pace, Azzariti, Settis, De Monticelli, Bonsanti) che ha trovato spazio solo sulla prima pagina del nostro giornale. Un silenzio che non può certo sorprendere. Con furbizia fiorentina Renzi sta infatti propinando agli italiani la favola di un taglio netto alla casta dei politici inetti e forchettoni, come se sacrificando gli emolumenti di 315 senatori (mantenendo però le monumentali spese dei relativi uffici) qualcosa potesse cambiare nella voragine dei conti pubblici. Ma gli italiani, ormai troppo esasperati dalla mala politica, preferiscono credere al pifferaio magico, indifferenti o rassegnati. È difficile andare controvento e pur tuttavia bisogna provarci, perché sono in gioco i fondamenti della nostra democrazia. Possibile che nel Pd e nella sinistra abbiano tutti portato il cervello all’ammasso? Come disse il presidente Scalfaro nel 2006 guidando il fronte del No al referendum che cancellò la controriforma di Berlusconi: “Meglio perdere in piedi che vincere in ginocchio”. Dal Fatto Quotidiano del 29 marzo 2014

giovedì 6 febbraio 2014

TELELAVORO

Lavorare tutti lavorare meno, era il vecchio slogan. La versione moderna sarà 'lavorare tutti, ma da casa'. E' l'obiettivo del Comune di Milano, che ha promosso per giovedì 6 febbraio la prima 'Giornata del lavoro agile' per far lavorare diecimila cittadini dal pc domestico. E fra i diecimila milanesi che non andranno in un ufficio, in occasione della Giornata, ma lavoreranno dalla scrivania in salotto ci saranno centinaia di dipendenti comunali e altre migliaia delle decine di aziende che hanno aderito all'iniziativa. Un'operazione che vuole testimoniare come sia possibile e anche economicamente vantaggiosa una nuova modalità professionale - quella del lavoro da casa - che all'estero è già molto diffusa e che anche in Italia dovrò diffondersi se si vogliono abbassare i costi e dare la possibilità alle persone di conciliare famiglia e lavoro. L'assessore Bisconti: "Non solo per le mamme" Le aziende che hanno aderito Di questo è convinta l'assessore alla Qualità della vita, Chiara Bisconti, manager che viene dall'impresa privata e che da tre anni si è prestata all'amministrazione, senza essersi mai occupata prima di politica. E' sua la strategia già presente in molte aziende private, importata nella macchina amministrativa di Palazzo Marino - col benestare del sindaco Giuliano Pisapia - di dare ai dipendenti comunali la facoltà di usufruire del permesso per lavorare da casa in alcune giornate. Un meccanismo sperimentato in alcuni uffici comunali, e con ottimi risultati, nei mesi scorsi. Ora l'idea è di mettere a regime questa pratica innovativa dell'home working. Un'idea che ispira la Giornata alla quale il Comune ha invitato a partecipare aziende, imprese e cooperative. Tutte sperimenteranno la modalità operativa del lavoro a distanza. L'iniziativa è stata promossa in collaborazione con Cgil, Cisl, Uil, Sda Bocconi, Assolombarda, Abi (banche) Aidp, Anci Lombardia, Unione confcommercio. Sul sito del Comune - che ha impostato il progetto in collaborazione con l'Università Bocconi - sono piovute in un mese decine di adesioni, ormai oltre un centinaio e in continua crescita. "E' la dimostrazione che stiamo intercettando tante esigenze diverse e diffuse che hanno bisogno di essere riconosciute, valorizzate e incentivate - spiega Bisconti - Si può sperimentare anche per un solo giorno modalità e ritmi di lavoro diverso in una grande area metropolitana come quella di Milano, questo è già un grande successo". La Giornata del lavoro agile è anche un'occasione per sperimentare il Piano territoriale degli orari per promuovere una nuova organizzazione del lavoro in città. Nei sogni dell'assessore Bisconti - suffragati dai dati e dalle proiezioni dei ricercatori della Bocconi - in futuro molte professioni potranno essere svolte oltre che dall'ufficio anche da casa, oppure dal bar, dalla palestra, dal parco, da postazioni di co-working. Durante la Giornata si faranno valutazioni sul risparmio di tempo da parte dei lavoratori che non andranno in ufficio, ma anche sui benefici ambientali per la riduzione di traffico, inquinamento, consumi energetici. Tags TAG lavoro agile, Chiara Bisconti, DA La Repubblica

lunedì 6 gennaio 2014

Tutto quello che non ha fatto la politica del «noi faremo»

A fine anno, nella vita come in tv, si replica. Il Capo dello Stato fa il suo discorso, quello del Governo ricicla le dichiarazioni di 6 mesi fa in occasione del decreto del fare, con l’enfasi di un brindisi: «Faremo». Vorremmo un governo che a fine anno dica «abbiamo fatto» senza dover essere smentito. Il Ministro Lupi fa l’elenco della spesa: 10 miliardi per i cantieri, «saranno realizzate cose come piazze, tutto ciò di cui c’è un bisogno primario». C’è un bisogno primario di piazze e di rotatorie? «Trecentoventi milioni per la Salerno-Reggio Calabria». Ancora fondi per la Salerno Reggio-Calabria? Fondi per l’allacciamento wi-fi. Ma non erano già nel piano dell’Agenda Digitale? E poi la notizia numero uno: «Le tasse sono diminuite». Vorrei sapere dal premier Letta per chi sono diminuite, perché le mie sono aumentate, e anche quelle di tutte le persone che conosco o che a me si rivolgono. È aumentata la bolletta elettrica, l’Iva, l’Irpef, la Tares. L’acconto da versare a fine anno è arrivato al 102% delle imposte pagate nel 2012, quando nel 2013 tutti hanno guadagnato meno rispetto all’anno prima. Certo l’anno prossimo si andrà a credito, ma intanto magari chiudi o licenzi. E tu Stato, quando questi soldi li dovrai restituire dove li trovi? Farai una manovra che andrà a penalizzare qualcuno. I debiti della pubblica amministrazione con le imprese ammontano a 91 miliardi. A giugno il Governo dichiara: «Stanziati 16 miliardi». È un falso, perché quei 16 miliardi sono un prestito fatto da Cassa Depositi e Prestiti agli enti locali. E per rimborsare questo mutuo, i comuni, le province e regioni hanno aumentato le imposte. L’Assessore al Bilancio della Regione Piemonte in un’intervista a Report ha detto: «Per non caricare il pagamento dei debiti sui cittadini, si doveva tagliare sul corpo centrale delle spese del Governo, e se non si raggiungeva la cifra… non so.. vendo la Rai!». Privatizzare la Rai è un tema ricorrente. Nessun paese europeo pensa di vendersi il servizio pubblico perché è un cardine della democrazia non sacrificabile. In nessun paese europeo però ci sono 25 sedi locali: Potenza, Perugia, Catanzaro, Ancona. In Sicilia ce ne sono addirittura due, a Palermo e a Catania, ma anche in Veneto c’è una sede a Venezia e una a Verona, in Trentino Alto Adige una a Trento e una a Bolzano. La Rai di Genova sta dentro ad un grattacielo di 12 piani…ma ne occupano a malapena 3. A Cagliari invece l’edificio è fatiscente con problemi di incolumità per i dipendenti. Poi ci sono i Centri di Produzione che non producono nulla, come quelli di Palermo e Firenze. A cosa servono 25 sedi? A produrre tre tg regionali al giorno, con prevalenza di servizi sulle sagre, assessori che inaugurano mostre, qualche fatto di cronaca. L’edizione di mezzanotte, che è una ribattuta, costa 4 milioni l’anno solo di personale. Perché non cominciare a razionalizzare? Se informazione locale deve essere, facciamola sul serio, con piccoli nuclei, utilizzando agili collaboratori sul posto in caso di eventi o calamità, e in sinergia con Rai news 24. Non si farà fatica, con tutte le scuole di giornalismo che sfornano ogni anno qualche centinaio di giornalisti! Vogliamo cominciare da lì nel 2014? O ci dobbiamo attendere presidenti di Regione che si imbavagliano davanti a Viale Mazzini per chiedere la testa del direttore di turno che ha avuto la malaugurata idea di fare il suo mestiere? È probabile, visto che la maggior parte di quelle 25 sedi serve a garantire un microfono aperto ai politici locali. Le Regioni moltiplicano per 21 le attività che possono essere fatte da un unico organismo. Prendiamo un esempio cruciale: il turismo. Ogni regione ha il suo ente, la sua sede, il suo organico, il suo budget, le sue consulenze, e ognuno si fa la sua campagna pubblicitaria. La Basilicata si fa il suo stand per sponsorizzare Metaponto a Shangai. Ognuno pensa a sé, alla sua clientela (non turistica, sia chiaro) da foraggiare. E alla fine l’Italia, all’estero, come offerta turistica, non esiste. Dal mio modesto osservatorio che da 16 anni verifica e approfondisce le ricadute di leggi approvate e decreti mai emanati che mettono in difficoltà cittadini e imprese, mi permetto di fare un elenco di fatti che mi auguro, a fine 2014, vengano definitivamente risolti. Punto 1. Ridefinizione del concetto di flessibilità. Chi legifera dentro al palazzo forse non conosce il muro contro cui va a sbattere chi vorrebbe dare lavoro, e chi lo cerca. Un datore di lavoro (che sia impresa o libero professionista) se utilizza un collaboratore per più di 1 mese l’anno, lo deve assumere. Essendo troppo oneroso preferisce cambiare spesso collaboratore. Il precario, a sua volta, se offre una prestazione che supera i 5000 euro per lo stesso datore di lavoro, non può fare la prestazione occasionale, ma deve aprire la partita Iva, che pur essendo nel regime dei minimi lo costringe comunque al versamento degli acconti; inoltre deve rivolgersi ad un commercialista per la dichiarazione dei redditi, perché la norma è di tre righe, ma per dirti come interpretare quelle tre righe, ci sono delle circolari ministeriali di 30 pagine, che cambiano continuamente. Il principio di spingere le persone a mettersi in proprio è buono, ma poi le regole vengono rimpinzate di lacci e alla fine la partita Iva diventa poco utilizzabile. Perché non alzare il tetto della «prestazione occasionale» fino a quando il precario non ha definito il proprio percorso professionale? Il mondo del lavoro non è fatto solo da imprese che sfruttano, ma da migliaia di micropossibilità che vengono annientate da una visione che conosce solo la logica del posto fisso. Si dirà: «Ma se non metti dei paletti ci troveremo un mondo di precari a cui nessuno versa i contributi». Allora cominci lo Stato ad interrompere il blocco delle assunzioni e smetta di esternalizzare! Oggi alle scuole servono 11.000 bidelli che costerebbero 300 milioni l’anno. Lo Stato invece preferisce dare questi 300 milioni ad alcune imprese, che ricavano i loro margini abbassando gli stipendi (600 euro al mese) e di conseguenza i contributi. Che pensione avranno questi bidelli? In compenso lo Stato non ha risparmiato nulla…però obbliga un libero professionista o una piccola impresa ad assumere un collaboratore che gli serve solo qualche mese l’anno. Il risultato è un incremento della piaga che si voleva combattere: il lavoro nero. Punto 2. Giustizia. Mentre aspettiamo di vedere l’annunciata legge che archivia i reati minori (chi falsifica il biglietto dell’autobus si prenderà una multa senza fare 3 gradi di giudizio), occorrerebbe cancellare i processi agli irreperibili. Oggi chi è beccato a vendere borse false per strada viene denunciato; però l’immigrato spesso non ha fissa dimora, e diventa impossibile notificare gli atti, ma il processo va avanti lo stesso, con l’avvocato d’ufficio, pagato dallo Stato, il quale ha tutto l’interesse a ricorrere in caso di condanna. Una macchina costosissima che riguarda circa il 30% delle sentenze dei tribunali monocratici, per condannare un soggetto che «non c’è». Se poi un giorno lo trovi, poiché la legge europea prevede il suo diritto a difendersi, si ricomincia da capo. Perché non fare come fan tutti, ovvero sospendere il processo fino a quando non trovi l’irreperibile? Siamo anche l’unico paese al mondo ad aver introdotto il reato di clandestinità: una volta accertato che tizio è clandestino, anziché imbarcarlo subito su una nave verso il suo paese, prima gli facciamo il processo e poi lo espelliamo. Una presa in giro utile a far credere alla popolazione, che paga il conto, che «noi ce l’abbiamo duro». Punto 3. L’autorità che vigila sui mercati e sul risparmio. Dal 15 dicembre, scaduto il mandato del commissario Pezzinga, la Consob è composta da soli due componenti. La nomina del terzo commissario compete al Presidente del Consiglio sentito il Ministro dell’Economia ed avviene con decreto del Presidente della Repubblica. Nella migliore delle ipotesi ci vorranno un paio di mesi di burocrazia una volta che si sono messi d’accordo sul nome. Ad oggi l’iter non è ancora stato avviato e l’Autorità non assolve il suo ruolo indipendente proprio quando si deve occupare di dossier strategici per il futuro economico-finanziario del Paese come MPS, Unipol-Fonsai e Telecom. Di fatto Vegas può decidere come vigilare sui mercati finanziari e sul risparmio, direttamente da casa, magari dopo essersi consultato con Tremonti (che lo aveva a suo tempo indicato), visto che il voto del Presidente vale doppio in caso di parità, e i Commissari hanno facoltà di astensione. Perché il Governo non si è posto il problema qualche mese fa, e perché non si è ancora fatto carico di una nomina autorevole, indipendente e in grado di riportare al rispetto delle regole? Punto 4. Ilva. È alla firma del Capo dello Stato il decreto «terra dei fuochi», dentro ci hanno messo un articolo che autorizza l’ottantenne Commissario Bondi a farsi dare i circa 2 miliardi dei Riva sequestrati dalla procura di Milano. Ottimo! Peccato che non sia specificato che quei soldi devono essere investiti nella bonifica. Inoltre Bondi è inadempiente, ma il decreto gli da una proroga di altri 3 anni, e se poi non sarà riuscito a risanare, non è prevista nessuna sanzione. Nel frattempo che ne è del diritto non prorogabile della popolazione a non respirare diossina? Ovunque, di fronte ad un disastro ambientale, si sequestra, si bonifica e i responsabili pagano. Per il nostro governo si può morire ancora un po’. Come contribuente e come cittadina non mi interessa un governo di giovani quarantenni. Pretendo di essere governata da persone competenti e responsabili, che blaterino meno e ci tirino fuori dai guai. Pretendo che l’età della pensione valga per tutti, che il rinnovo degli incarichi operativi non sia più uno orrendo scambio di poltrone fra la solita compagnia di giro. Pretendo di essere governata da una classe politica che non insegna ai nostri figli che impegnarsi a dare il meglio è inutile. Di Milena Gabanelli, Corriere della Sera 31/12/2013

mercoledì 9 gennaio 2013

REFERENDUM ART. 8 e ART. 18 - SI FARA'?

Ancora una volta sono i cittadini a fare quel che la politica non vuole fare. Centinaia di migliaia di persone hanno firmato i referendum per restituire ai lavoratori i diritti che Berlusconi e Monti gli hanno tolto: quello di essere reintegrati nel posto di lavoro quando una sentenza certifica che sono stati licenziati ingiustamente, quello di veder rispettato il contratto di lavoro senza che l’azienda possa decidere che non le sta bene e preferisce derogare.
Oggi i partiti che hanno votato a favore della cancellazione dell’art. 18 e hanno permesso alle aziende di licenziare ingiustamente i lavoratori erano tutti impegnati a spartirsi poltrone parlamentari, futuri posti al governo e quant’altro. Noi dell’Italia dei Valori, con tutte le forze che fanno parte del comitato referendario, eravamo in cassazione, a depositare le firme.
Ancora una volta, però, la volontà democratica dei cittadini rischia di essere tradita. Grazie a una bega politica, che forse qualcuno ha usato apposta per evitare i referendum, la legislatura si è chiusa un attimo prima della consegna delle firme. Dunque i referendum potrebbero non tenersi.
Noi presenteremo però in sede di contenzioso un ricorso presso la Corte costituzionale, affinché chiarisca la questione. Ci auguriamo che stavolta la Consulta ristabilisca il rispetto delle regole democratiche. Non è giusto che, impugnando beghe politiche e magari facendole scoppiare al momento opportuno, ai cittadini venga sottratto il diritto di decidere su una questione così importante, che riguarda la civiltà del lavoro nel nostro Paese.
Nessuno si faccia illusioni. Per l’Italia dei Valori e per tutta Rivoluzione civile questa battaglia non finirà fino a quando non avremo restituito ai lavoratori i loro diritti e ai cittadini gli spazi democratici che negli ultimi anni sono stati chiusi uno dopo l’altro.
Antonio Di Pietro.